Un problema molto diffuso ma poco conosciuto. Un paradosso che danneggia chi è affetto da dipendenza affettiva, magari senza saperlo. Ad approfondire la tematica è la psicologa e psicoterapeuta Maria Luisa Distaso, originaria di Margherita di Savoia, che vorrebbe aiutare a far comprendere: «dipendere cosa significa. Semplicemente vuol dire perdere la capacità di decidere con la propria mente e il proprio cuore, affidandosi a una sostanza. Si può anche dipendere da un padre, una madre, un figlio, una figlia, un amico, un collega. Solitamente questo meccanismo scatta nei momenti di vuoto, di noia, di insoddisfazione, di sofferenza. Si sente il bisogno di riempire un vuoto ed è proprio l’incapacità di reggere questo bisogno che conduce nell’errore. In pratica, una seconda persona viene messa al centro della propria esistenza al punto tale da dipendere da essa per ogni cosa o decisione».

«A occuparsi per prima di dipendenza affettiva nelle relazioni di coppia è stata la psicoanalista americana Robin Norwood col libro “Donne che amano troppo” edito nel 1989. Il suo merito è stato quello di aver fatto conoscere al mondo questa patologia che colpisce soprattutto le donne. Coi suoi studi condotti sulle mogli dei tossicodipendenti, Norwood si è accorda che queste donne necessitavano di un partner con problemi per sentirsi realizzate, attuando la “sindrome della crocerossina”. Per loro amare significava guarire il proprio uomo, molte volte incapace di amare. Infatti, spesso la relazione terminava con la guarnigione del partner. Solitamente si trattava di donne con un vissuto di carenza affettiva a livello genitoriale. Donne destinate all’autodistruzione se incapaci di prendere consapevolezza del proprio problema. Spesso, infatti, inseguono il loro persecutore, l’uomo narcisista che le disprezza, le usa e per mano di esso perdono la vita. Curare la dipendenza affettiva è alla base della lotta al femminicidio».

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