Una settimana della memoria, perché ricordarsi di ricordare solo per un giorno è come se si volesse espletare una banale pratica burocratica. Le donne nella Shoah e il loro “Pudore violato” un tema, scelto dall’Unitalsi di Margherita di Savoia con la collaborazione del Comune e l’associazione Figli della Shoah che da Milno ha concesso in prestito il proprio materiale esposto presso il Palazzo di Città, che mette in risalto una condizione un pò più rigida vissuta nei campi di concentramento. Molte volte si fa confusione con la storia e si pensa a quella pagina racchiusa dall’inizio degli anni ’30 fino al 1945 in modo confusionario, credendo che l’unica fabbrica di morte fosse Auschwitz e che i campi fossero qualcosa di disorganizzato con l’unico scopo di internare persone e assicurarle sin dal primo istante ai forni crematori. Non è esattamente così. Col Giudice Antonio Diella, presidente nazionale dell’Unitalsi ed esperto di storia contemporanea, è emerso un dettaglio storico molto importante: «Il numero delle donne morte durante la soluzione finale è maggiore rispetto a quello degli uomini. Alle donne non veniva data tanta importanza da parte dei tedeschi, perché al contrario degli uomini che servivano per lavorare, loro erano destinate direttamente allo sterminio». Quindi, i campi avevano una struttura ben organizzata tanto da preservare luoghi e trattamenti diversi a uomini e donne, anzi a maschi e femmine visto che negli elenchi di Heinrich Himmel non erano altro che questo. «Il ruolo delle donne è stato diverso e la vita stessa del campo era diversa. C’erano delle differenze notevoli nella sistemazione delle baracche, per esempio ad Auschwitz. Quelle degli uomini erano migliori per conservare la forza lavoro, mentre per le donne non accedeva. Fra le donne chi ha pagato il prezzo più alto sono state quelle ebree e chi ha combattuto la resistenza come le piemontesi dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre».

Insomma, per una donna è stato sicuramente traumatico essere strappata dalla propria casa, dai propri figli, dal proprio marito. Denudata volontariamente dalle Einsatzgruppen davanti ad altri uomini, rasate e mandate alle camere a gas. Chi è riuscita a sopravvivere è come se fosse morta lì, perché privata di ogni aspetto della propria femminilità, compreso il ciclo mestruale. Addirittura a circa 90 chilometri a nord di Barlino c’era il campo di Ravensbrück, dedicato alle donne. Nonostante tutto c’è chi ancora abbraccia la corrente negazionista: «Non bisogna stupirsi – afferma Diella – se ci sia ancora qualcuno che neghi, ma bisogna stupirsi davanti a un clima culturale che non spiega quelli siano le motivazioni che portano a negare contro la storia. Quando si paragonano gli stermini per poi finire col dire che in fondo non erano stermini, le notizie circolano e se non c’è una capacità storica-culturale di dimostrare che questo non è vero, si finisce per dare al negazionismo delle basi storiche. Invece gli studiosi, anche dalla documentazione emersa dagli archivi sovietici, hanno attestato che la soluzione finale era sostenuta da un apparato statale come quello tedesco». Una tematica, questa, messa in risalto anche dal Comune: «La memoria – afferma il vicesindaco Angela Cristiano – è importante per la storia. Purtroppo ad oggi gli errori si ripetono. Non dimentichiamo tutte quelle donne che vedono calpestati ancora i propri diritti e quindi il proprio pudore. Il compito degli amministratori e proprio quello di evitare che tutto ciò accada».